Recensione al disco della collana " il mito dell'opera" :

Giuseppe Danise by DAVIDE ANNACHINI

(edizione discografica : Bongiovanni)

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Evaluation of the record from the "il mito dell'opera catalogue":

Giuseppe Danise by DAVIDE ANNACHINI

(edition : Bongiovanni records)



Questo compact rende finalmente giustizia a uno dei maggiori baritoni del Ventesimo secolo, non adeguatamente ricordato in campo discografico quanto la sua statura artistica meriterebbe.


Giuseppe Danise rappresentò infatti un esempio emblematico del cantante di passaggio tra la vecchia e la nuova scuola, già manifestatosi con la generazione appena precedente degli Ancona, degli Scotti, dei Sammarco, ma che trovava ancora negli anni prossimi alla prima guerra mondiale, gli ultimi depositari dell'antico stile ottocentesco. Il trapasso dal belcantismo romantico alla visceralità verista era stato d'altronde meno traumatico in campo baritonale rispetto agli altri registri vocali e, se i Caruso e le Burzio avevano nettamente tracciato una linea di spartiacque tra il cantante del passato e quello moderno per quanto riguardava tenore e soprano, l'esempio altrettanto dirompente di Titta Ruffo avrebbe conosciuto i suoi effetti gradatamente e solo più tardi.


Danise, che aveva studiato con i maestri Colonnese e Petillo al Conservatorio della sua città, aveva indubbiamente appreso i dettami fondamentali della scuola ottocentesca, ma come tutti i colleghi dell'epoca ebbe a confrontarli immediatamente con l'opera verista, tant'è che il suo debutto avvenne al Teatro Bellini di Napoli proprio in Cavalleria rusticana, nel 1906. Seguirono anni di tirocinio, sia in provincia sia addirittura in Russia, finché, dal 1913 in poi, cominciò ad imporsi in teatri di prestigio come il Regio di Torino (Crepuscolo degli dei, Isabeau, Don Carlo) e il Massimo di Palermo, dove partecipò alla riproposta - nella nuova versione intitolata Mimì Pinson - della Bohème di Leoncavallo. In un repertorio che dal Barbiere spaziava sino alla recentissima Fanciulla del West, si presentò ai pubblici di Buenos Aires, di San Paolo e, in Italia, al Costanzi di Roma, esordendo nella stagione 1915/16 alla Scala quale protagonista del Principe Igor e cogliendo un successo trionfale nella Battaglia di Legnano, a fianco di Rosa Raisa.


Tornò al teatro milanese l'anno dopo in opere diversissime come il Fernando Cortez di Spontini e Siberia di Giordano, partecipando tra l'altro alla prima assoluta del Macigno di Victor De Sabata. La sua carriera, però, sembrava sempre più indirizzarsi ai teatri d'oltreoceano, tanto che il debutto al Metropolitan di New York non tardò ad arrivare, nel l920, nei panni di Amonasro, cui avrebbero fatto seguito una trentina di ruoli nell'arco ininterrotto di ben dodici stagioni. Qui partecipò alle prime esecuzioni americane di Giovanni Gallurese di Montemezzi (nel '25) e della Fiera di Sorocinski di Mussorgski (nel '30), oltre a quelle locali de Le Roi d'Ys di Lalo (nel '22, con la Ponselle e Gigli), di Andrea Chénier e di Loreley (nel '21 e nel '22, in entrambi i casi a fianco di Gigli e della Muzio), dei Gioielli della Madonna di Wolf-Ferrari (nel 25, insieme alla Jeritza e a Martinelli). Il suo ritorno in patria, per la stagione 1932/33, si sarebbe segnalato per alcuni successi ancora clamorosi, come quello torinese nel Lohengrin e quello scaligero in Tosca, che l'anno dopo però non si ripetè con Trovatore, stranamente contestato dal pubblico milanese. Non a caso, dopo alcune recite - tra l'altro al San Carlo di Napoli e al Carlo Felice di Genova -, Danise decise di lasciare le scene, trasferendosi nel 1935 a New York, dove aprì una scuola di canto, alla quale si sarebbe rivolta, tra gli altri, Regina Resnik, per perfezionare la sua trasformazione da soprano a mezzosoprano. Va ricordato, inoltre, il suo legame in età avanzata con Bidu Sayao, che sposò in seguito al divorzio del celebre soprano brasiliano dall'impresario Walter Mocchi, avvenuto nel '46.


Da questi cenni biografici si possono già intuire alcune particolarità di Danise, quale ad esempio la grande versatilità, che gli permetteva di abbracciare un repertorio vastissimo e quanto mai eterogeneo. Non era forse per l'epoca un requisito raro, visto che la maggior parte dei baritoni era solita destreggiarsi tanto nel repertorio romantico quanto in quello della Giovane Scuola. Danise era però in grado di portare nei ruoli veristi la linea sorvegliata e rigorosa di memoria ottocentesca, ormai sfrondata dalle affettazioni di un Battistini ma al tempo stesso nemmeno suggestionata dalla muscolosità vocale di un Ruffo. Si trattava di "bel canto" nel senso classico del termine, in cui il perfetto sostegno del suono, la morbidezza dell'emissione, la timbratura squillante assicurata a tutta la gamma, la dizione nitidissima, il porgere aulico e nobile erano quelli della grande scuola del passato. Si aggiungano altri meriti solo apparentemente naturali (ma, a ben vedere, in buona parte frutto dell'eccellente tecnica), quali la bellezza del timbro, l'estensione, l'ampiezza vocale, e si potrà capire la statura eccezionale di questo baritono.

Come interprete Danise fu senza dubbio rilevante, vista la scolpitezza del fraseggio e la duttilità dinamica dei chiaroscuri, anche se la sensazione che si può cogliere dai suoi dischi - incisi sotto etichetta Brunswick durante il soggiorno americano - resta quella di una potenzialità non completamente espressa. Infatti, al di là dell'esecuzione inappuntabile, viene spesso a mancare l'autentico abbandono, per via di una certa uniformità di suono, che tende a piegarsi al canto sfumato meno di quanto potrebbe. D'altro lato, il colpo d'ala memorabile manca spesso all'appello, lasciando il sospetto - quanto meno in sede d'incisione - di un baritono perdente a confronto del travolgente istrionismo di uno Stracciari, della pregnanza espressiva di un Galeffi, del toccante intimismo di un De Luca.


L'impressione del cantante impeccabile ma pigramente portato a interpretare sparisce però all'ascolto dei brani del Rigoletto, che Danise incise a Milano nel 1917 per l'H.M.V. Si trattava della partecipazione a un'edizione completa dell'opera verdiana, in cui la presenza del baritono napoletano si limitava alle pagine principali, lasciando il campo per gli interventi minori a un collega, Ernesto Badini, affermato per altro nel genere brillante. Qui Danise coglie momenti superlativi, che un critico dell'importanza di Rodolfo Celletti ha segnalato a suo tempo come quelli del "Rigoletto più completo che si possa ascoltare in disco". Difatti la tenerezza accorata delle mezzevoci nei duetti con Gilda o la varietà coloristica del "Pari siamo" fanno da contraltare all'incisività sferzante delle invettive di "Cortigiani" e della "Vendetta", mentre sul piano vocale ascoltiamo pianissimi preziosi, un legato superbo, acuti così facili e squillanti da suonare come autentici strali in frasi quali "...se dei figli difende l'onor!" o "...te colpire il buffone saprà". Senza contare l'effetto mozzafiato del mi bemolle acuto di "...un vindice avrai", che contrariamente all'usuale attacco in mezzoforte gradualmente rinforzato, qui viene emesso a piena voce e quindi miracolosamente smorzato. Sopra tutte queste meraviglie emerge però un Rigoletto inedito, quanto meno per quegli anni e per quanto ci ha abituato a conoscere una deprecabile tradizione. Non più il buffone grandguignolesco ma un uomo di grande dignità e intima sofferenza, padre nobile di autorità severa ma al tempo stesso affettuosa, lontano anni luce da quella caricatura plateale e cachinneggiante imposta come stereotipo incontestabile per troppo tempo. Ascoltato oggi, il Rigoletto di Danise si impone quindi come un'autentica rivelazione, risultando assolutamente moderno rispetto alla gran parte di quelli che il disco ci ha tramandato dopo di lui e incredibilmente illuminante quanto a stile, esecuzione, interpretazione.


Ma non è che con quanto detto si voglia circoscrivere l'interesse di questo compact alle sole pagine del Rigoletto. Ogni brano è una lezione di canto e la testimonianza di un'arte perdutasi nel tempo. Basti ascoltare la nitidezza scolpitissima del recitativo dell'Ernani, il legato fluidissimo dei cantabili nelle arie verdiane, le luminose mezzevoci dell'"Eri tu", l'incredibile uguaglianza dei registri in "Urna fatal", gli acuti squillantissimi sparsi un po' dovunque, persino l'ottimo trillo sciorinato in "Pietà Signore!". Emergono come comune denominatore il timbro pastoso e scuro, il canto espanso e rotondo, ma Soprattutto la compostezza dell'emissione, che anche nelle pagine più appassionate e veriste di Zazà non scende mai a compromessi. Forse alcune incisioni possono rivelarsi inferiori rispetto ad altre di riferimento, come quelle di Battistini nel caso di "Vision fugitive" o dell'aria di Valentino dal Faust, in cui Danise privilegia banalmente la corda stentorea a quella preziosa e intima, o come la storica interpretazione di Galeffi del Prologo dei Pagliacci, che qui troviamo meno vario e con un la bemolle - in "...al pari di voi" - facilissimo ma risolto grazie all'ausilio di un inutile portamento.


Si ascolti comunque l'aria della Traviata, unico esempio - insieme all'Ultima canzone di Tosti - delle incisioni elettriche effettuate tra il 1926 e il 1931 da Danise: a dieci anni da quelle acustiche del periodo 1921-1925, la voce, oltre che più presente grazie al nuovo sistema di registrazione, risulta intatta nella timbratura perfetta, che nelle frasi acute squilla con autorità assoluta e con un controllo sovrano dell'emissione. Una testimonianza che conta pochi paragoni - soprattutto per un cantante prossimo alla cinquantina e non lontano dal ritiro - e che impone ancor più Danise come un baritono da conoscere assolutamente oggi, dimenticando i tre quarti di secolo che ci separano da lui.

DAVIDE ANNACHINI


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And now the english translation made by Candace Smith


Giuseppe Danise


This recording finally does justice to one of the greatest baritones of the twentieth century, a singer who has not been as adequately remembered by the recording industry as his artistic stature merits.


Giuseppe Danise (Naples, 11 January 1883 – New York, 9 January 1963) represents an emblematic example of a singer bridging the old and new schools. Already active in the generation immediately following Ancona,, Scotti, Sammarco and the like, such singers continued through the years leading up to the First World War as the last exponents of the old nineteenth-century style. The transition from the romantic bel canto to the more visceral verismo was, to tell the truth, less traumatic for baritones than for the other vocal ranges. And if Caruso and Burzio clearly represent for tenors and sopranos a watershed standing between the singers of the past and those of modern times, the effects of the equally dramatic example of Titta Ruffa would be felt only gradually and at a later time.

Danise, who studied with Colonnese and Petillo at the conservatory in his hometown, undoubtedly learned the fundamentals of the nineteenth-century school. But, like all of his colleagues of the time, he was immediately forced to take on verismo opera, and he debuted, not surprisingly, in 1906 at the Teatro Bellini in Naples in Cavalleria rusticana.


This was followed by his apprentice years both in the provinces and even in Russia. In 1913, he began to make himself known in such prestigious theaters as the Teatro Regio of Turin (Götterdämmerung, Isabeau, Don Carlo) and the Teatro Massimo in Palermo. Here he participated in the remake of Leoncavallo’s Bohème (entitled Mimì Pinson). He appeared before the audiences of Buenos Aires, San Paolo and, in Italy, at the Teatro Constanzi in Rome, performing a repertoire which ranged from Il Barbiere to the recent La Fanciulla del West. He made his debut at La Scala during the 1915-16 season singing the lead role of Prince Igor, and he triumphed in La Battaglia di Legnano alongside Rosa Raisa. He returned to the Milanese theater the following year in such very different operas as Spontini’s Fernando Cortez and Giordano’s Siberia, and he also appeared in the world premiere of Il Macigno by Victor De Sabata. His career seemed headed overseas, however, and indeed in 1920 he made his debut at the Metropolitan in New York in the role of Amonasro.


This was followed by thirty or so other roles sung over an uninterrupted period of twelve seasons. Here he participated in the American premieres of Giovanni Gallurese by Montemezzi (1925) and The Fair of Sorocinski by Mussorsgky (1930), in addition to local premieres of Lalo’s Le Roi d’Ys (1922, with Ponselle and Gigli), Andrea Chénier and Loreley (1921 and 1922, respectively, in both cases with Gigli and Muzio), and I Gioelli della Madonna by Wolf-Ferrari (1925, with Jeritza and Martinelli). His return to Italy for the 1932-33 season was marked by numerous remarkable successes, in particular Lohengrin in Turin and Tosca at La Scala, though his Trovatore there the following year strangely enough did not go well with the Milanese public. Not coincidentally, after a few more performances, including those at San Carlo in Naples and Carlo Felice in Genoa, Danise decided to give up the stage. In 1935, he moved to New York where he opened up a singing school, and his pupils included Regina Resnik, intent on perfecting her transition from soprano to mezzo-soprano. In 1946, at an advanced age, he married the celebrated Brazilian soprano Bidu Sayao, following her divorce from the impresario Walter Mocchi.


From these biographical notes, certain unique characteristics of Danise are already evident. His great versatility, for example, allowed him to embrace an extremely vast and heterogeneous repertoire. This was not, perhaps, so unusual for the time, since the majority of baritones often managed both the romantic repertoire and that of the New School. Danise, however, was able to bring to veristic roles the carefully controlled line of the nineteenth-century school, a line which had been shed by the affectations of a Battistini, but at the same time was not even suggested by the vocal muscularity of a Ruffo. This was “bel canto” in the classic sense of the term. The perfect support of sound, the suppleness of vocal production, the ringing timbre throughout the range, the clarity of diction, the noble manner of putting forth the voice: these were legacies from the great school of the past. A careful look at these and other “natural” qualities (in large part the result of excellent technique)--the beauty of timbre, the large range, and the fullness of sound—and one grasps the exceptional stature of this baritone.


Danise was without a doubt a noteworthy interpreter, if one considers his careful sculpturing of the phrase and the dynamic flexibility of his chiaroscuro. His recordings (made on the Brunswick label when he was in America), however, might leave the listener with the feeling of partially unrealized potential. Indeed, beyond a flawless execution, a sense of true abandon is often missing, hindered by a certain uniformity of sound which tends to give way to vocal nuances less than it might. On the other hand, memorable flights of fancy are often lacking. One begins to suspect that, at least in the recording booth, this was a baritone who could not hold his own against the overwhelming histrionics of a Stracciari, the expressive depth of a Galeffi, or the moving intimacy of a De Luca.


The impression of an impeccable singer but lazy interpreter disappears, however, upon listening to the pieces from Rigoletto, which Danise recorded in Milan in 1917 for His Master’s Voice. On this occasion, Danise participated in the making of the complete edition of Verdi’s opera in which he sang the principal numbers, leaving the less important sections to his colleague, Ernesto Badini, himself known for comic roles. Here, Danise has absolutely superlative moments, which were once considered by the authoritative critic Rodolfo Celletti as those of “the most complete Rigoletto available on record”. In fact, the mournful tenderness of the mezzevoci in the duets with Gilda or the variety of colors in “Pari siamo” rival the cutting bite of the invectives in “Cortigiani” and the “Vendetta”. Vocally speaking, we hear precious pianissimos, a superb legato, and high notes which are so facile and brilliant that they sound like veritable darts in such phrases as “…se dei figli difende l’onor!” or “…te colpire il buffone saprà”. And let us not forget the breathtaking high Eb of “…un vindice avrai” which, contrary to the usual mezzoforte attack and gradual crescendo, is sung here in full voice and then miraculously diminished. Rising above all of these marvels, there emerges an unknown Rigoletto--unknown at least from those years and unknown after the deplorable traditions to which we have become accustomed. This is not a Grand Guignol fool but rather a man of great dignity and intimate suffering, a noble father who is strict but affectionate, a personage who is light years away from that vulgar and cackling caricature which has reigned as a stereotype for far too long. Heard today, Danise’s Rigoletto thus stands as an authentic revelation, in every way modern compared to the great majority of those Rigolettos heard on disc after him. It is incredibly illuminating in style, execution and interpretation.


This said, it is certainly not our intention to limit the interest of this CD solely to the numbers from Rigoletto. Each piece is a lesson in singing and the testimony of a lost art. It is enough to listen to the meticulously sculptured clarity in the recitative from Ernani, the wonderfully fluid legato in the cantabile passages from the arias by Verdi, the luminous mezzevoci of “Eri tu”, the incredible evenness of registers in “Urna fatal”, the brilliant high notes scattered here and there, and even the excellent trill which Danise brandishes in “Pietà Signore!”, There emerge as common denominators the creamy and dark timbre and the expansive and warm manner of singing. Above all, however, one is struck by the equanimity of vocal production which, even in the most passionate and veristic passages of Zazà, never stoops to compromise. Perhaps some of Danise’s recordings do not measure up to others made by his colleagues. A case in point is Battistini’s version of “Vision fugitive” or Valentine’s aria from Faust where, in comparison, Danise banally chooses a stentoreous reading over a more precious and intimate one. Or consider the historical interpretation by Galeffi of the prologue from I Pagliacci: here Danise’s performance is less varied and his Ab in “…al pari di voi” is sung with great ease but assisted by a useless portamento.


Listen, in any case, to the aria from La Traviata, the only example (together with Tosti’s Ultima canzone) of an electric recording made by Danise between 1927 and 1931. Ten years after the acoustic recordings of 1921-25, the voice is not only more present, thanks to the new recording techniques. Its flawless timbre is also completely intact, and in the high phrases, the voice rings with absolute authority and a masterful control of production. Such a testimony is comparable to few, especially in the case of a singer who was nearing fifty and would soon retire. It firmly establishes Danise as a baritone worth knowing today, despite the three-fourths of a century which divide him from us.


DAVIDE ANNACHINI


Giuseppe Danise (Salerno, 11 gennaio 1882New York, 9 gennaio 1963) è stato un baritono italiano.

Cenni sulla carriera

Danise, che aveva studiato con i maestri Colonnese e Petillo al Conservatorio della sua città, aveva indubbiamente appreso i dettami fondamentali della scuola ottocentesca, ma come tutti i colleghi dell'epoca ebbe a confrontarli immediatamente con l'opera verista, tant'è che il suo debutto avvenne al Teatro Bellini di Napoli in Cavalleria rusticana, nel 1906. Seguirono anni di tirocinio, sia in provincia sia addirittura in Russia, finché, dal 1913 in poi, cominciò ad imporsi in teatri di prestigio come il Regio di Torino (Il crepuscolo degli dei, Isabeau, Don Carlos) e il Massimo di Palermo, dove partecipò alla riproposta - nella nuova versione intitolata Mimì Pinson - della Bohème di Leoncavallo. In un repertorio che dal Barbiere di Siviglia spaziava sino alla recentissima La fanciulla del West, si presentò ai pubblici di Buenos Aires, di San Paolo del Brasile e, in Italia, al Costanzi di Roma, esordendo nella stagione 1915/16 alla Scala quale protagonista de Il principe Igor e cogliendo un successo trionfale ne La battaglia di Legnano, a fianco di Rosa Raisa.

Tornò al teatro milanese l'anno dopo in opere diversissime come il Fernand Cortez di Spontini e Siberia di Giordano, partecipando tra l'altro alla prima assoluta de Il macigno di Victor De Sabata. La sua carriera, però, sembrava sempre più indirizzarsi ai teatri d'oltreoceano, tanto che il debutto al Metropolitan Opera di New York non tardò ad arrivare, nel 1920, nei panni di Amonasro, cui avrebbero fatto seguito una trentina di ruoli nell'arco ininterrotto di ben dodici stagioni. Qui partecipò alle prime esecuzioni americane di Giovanni Gallurese di Montemezzi (1925) e de La fiera di Sorocinzi di Musorgskij (1930), oltre a quelle locali de Le roi d'Ys di Édouard Lalo (nel 1922, con la Ponselle e Gigli), di Andrea Chénier e di Loreley (nel 1921 e nel 1922, in entrambi i casi a fianco di Gigli e della Muzio), de I gioielli della Madonna di Wolf-Ferrari (nel 1925, insieme alla Jeritza e a Martinelli). Il suo ritorno in patria, per la stagione 1932/33, si sarebbe segnalato per alcuni successi ancora clamorosi, come quello torinese nel Lohengrin e quello scaligero in Tosca, che l'anno dopo però non si ripeté con Il trovatore, stranamente contestato dal pubblico milanese. Non a caso, dopo alcune recite - tra l'altro al San Carlo di Napoli e al Carlo Felice di Genova -, Danise decise di lasciare le scene, trasferendosi nel 1935 a New York, dove aprì una scuola di canto, alla quale si sarebbe rivolta, tra gli altri, Regina Resnik, per perfezionare la sua trasformazione da soprano a mezzosoprano. Va ricordato, inoltre, il suo legame in età avanzata con Bidu Sayao, che sposò in seguito al divorzio del celebre soprano brasiliano dall'impresario teatrale italiano Walter Mocchi, avvenuto nel 1946.

Lo stile

Giuseppe Danise rappresentò un esempio emblematico del cantante di passaggio tra la vecchia e la nuova scuola, già manifestatosi con la generazione appena precedente degli Ancona, degli Scotti, dei Sammarco, ma che trovava ancora negli anni prossimi alla prima guerra mondiale gli ultimi depositari dell'antico stile ottocentesco. Il trapasso dal belcantismo romantico alla visceralità verista era stato d'altronde meno traumatico in campo baritonale rispetto agli altri registri vocali e, se i Caruso e le Burzio avevano nettamente tracciato una linea di spartiacque tra il cantante del passato e quello moderno per quanto riguardava tenore e soprano, l'esempio altrettanto importante di Titta Ruffo avrebbe manifestato i suoi effetti gradatamente e solo più tardi.

Danise fu un interprete di grande versatilità, che gli permetteva di abbracciare un repertorio vastissimo e quanto mai eterogeneo. Non era forse per l'epoca un requisito raro, visto che la maggior parte dei baritoni era solita destreggiarsi tanto nel repertorio romantico quanto in quello della Giovane Scuola. Danise era però in grado di portare nei ruoli veristi la linea sorvegliata e rigorosa di memoria ottocentesca. Come interprete Danise fu senza dubbio rilevante, anche se la sensazione che si può cogliere dai suoi dischi - incisi sotto etichetta Brunswick durante il soggiorno americano - resta quella di una potenzialità non completamente espressa. Infatti, al di là dell'esecuzione inappuntabile, viene spesso a mancare l'autentico abbandono, per via di una certa uniformità di suono, che tende a piegarsi al canto sfumato meno di quanto potrebbe.